Tutta sua madre

 Tutta sua madre
Ci sono libri che ti parlano al cuore, e i libri scritti per i bambini più di altri.
E così succede che, mentre stai leggendo una storia a tua figlia, tu cominci a lacrimare senza poter smettere, e lei con te, ma comunque sono lacrime di gioia, mamma, perché è una storia molto bella.
Non sono convinta che i bambini debbano essere preservati da ogni cosa brutta, che gli si debba cambiare i finali di favole e libri per non impressionarli. Credo però che il dolore, la sofferenza, la paura vadano sublimati con la poesia. Che ogni messaggio, per quanto negativo, possa contenere in sé un germe di speranza.
 
Il libro di Roddy Doyle (sì quello di Paddy Clark ah ah ah! e de I Commitments) edito da Salani è una delicatissima storia illustrata sulla perdita, la mancanza ma anche sulla felicità. 
È un libro triste che però ti lascia con un sorriso. E ogni sorriso è un seme di speranza e verità, che germogliando ti fa capire che nessuna mancanza è definitiva. Che il ricordo è una dolce forma di possesso e che rinunciare a essere felici non ci preserva dal dolore.

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Siobhán aveva dieci anni e sua madre era morta quando lei ne aveva solo tre. 

Viveva in una grande casa di Dublino, ricolma di oggetti antichi che le parlavano del loro passato, ma niente che le ricordasse sua madre, nessuna fotografia, solo vecchi libri, un foulard e un paio di scarpe verdi un po’ pazze.

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Suo padre era un uomo gentile e malinconico. Spesso leggeva per Siobhán e ogni venerdì le portava un libro nuovo. Ma aveva sempre lo sguardo triste  e non parlava mai di sua madre.
Siobhán ricordava la sua voce mentre cantava per lei, ricordava le sue mani che le pettinavano i capelli e le tiravano su le calze. Ma non riusciva a ricordare il suo viso. Lo spazio vuoto dove avrebbe dovuto trovarsi il viso della mamma era come un dolore, un’infelicità che Siobhán portava con sé ovunque.
 
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Un giorno Siobhán era andata al Saint Anne’s Park e si era seduta sotto un castagno enorme. Lì era stata avvicinata da una donna che non conosceva ma che aveva un aspetto familiare. Avevano parlato un po’. Siobhán le aveva confidato che a volte si sentiva triste. Lei le aveva detto che non importava se non ricordava il volto di sua madre. Le bastava guardarsi ogni giorno allo specchio per rivederla riflessa nei suoi occhi. 

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La donna prima di andarsene si era chinata e le aveva sussurrato un segreto all’orecchio. Un messaggio che avrebbe dovuto riferire a suo padre e a lui soltanto. Siobhán sorrise.

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Tornata a casa Siobhán corse a guardarsi allo specchio. Riuscì a immaginare il viso di un’altra ragazza, con labbra più scure e capelli diversi. Stava immaginando il viso di sua madre.

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Siobhán diventò grande ed ebbe una bambina che chiamò Ellen, come sua madre. Ma si dimenticò completamente di riferire al padre il messaggio della bella signora. 

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Il giorno del suo trentesimo compleanno Siobhán indossò le scarpe verdi un po’ folli, poi andò insieme a Ellen a fare visita al nonno nella grande casa. Quando salì in bagno e si guardò allo specchio ebbe uno shock: stava guardando negli occhi la donna che aveva incontrato molti anni prima al parco. Siobhán era il suo ritratto.

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E allora pianse, rise e pianse, insieme a Ellen, la sua bambina che le aveva chiesto di poter piangere con lei. Piansero finché non furono bagnate fradice.

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Poi Siobhan si ricordò del messaggio che non aveva mai consegnato a suo padre.

– Mettiti una piuma nelle mutande, papà.
Era quello che gli diceva Ellen quando era troppo serio.
E lui rise. Era la prima volta che Siobhan lo sentiva ridere.

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Gli anni passarono e Siobhán visse abbastanza da poter vedere la sua bambina diventare grande. Ellen diventò una donna un po’ folle, divertente e bella che se ne andava in giro in bici con un cestino pieno di piume alla ricerca di uomini troppo seri.

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La storia è finita così.

E noi piangevamo e ridevamo insieme, perché piangere non è mica una cosa brutta.

E io mi chiedo quanto, delle persone che abbiamo amato, resti sul nostro viso, nei nostri lineamenti. E in fondo penso che è vero, che le persone non le perdiamo mai del tutto finché le portiamo impresse sul nostro volto e nei nostri occhi. E questo è un privilegio raro. 

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Commenti

  • Claudia scrive:

    Piangere, anche da adulti (adultissimi! avrebbe detto mia figlia da piccola) chissà come e perché, fa bene… Tanto per dire, io stasera ho pianto rivedendo E.T. e non avevo nemmeno un bambino accanto. Ma non mi vergogno neanche un po’
    :))

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