Una caccia al tesoro in città
Era il 1983 a Basilea, quando seguivo il mio papà che, mappa in mano, andava alla ricerca delle tracce del protagonista di un libro che aveva amato. Ricordo di non aver capito il motivo di tanto disturbo (fermarsi in quella città solo perché ci era vissuto un uomo di fantasia), ma evidentemente una sensazione mi è rimasta appiccicata addosso se i miei viaggi di adulta sono sempre stati legati a una traccia, e poco importa che lo spunto sia un libro, una frase, un film, una canzone. Io organizzo l’itinerario e faccio da guida. Spesso sono guida semplicemente di me stessa. Ma che soddisfazione camminare sulle stesse strade solcate da qualcuno che ti ha fatto sognare.
Per una volta, però, ho deciso di assaporare il piacere di farmi guidare e ho partecipato alla Fai Marathon del 12 ottobre. La Fai Marathon è un evento organizzato dal Fondo Ambientale Italiano per permettere di “scoprire le città con occhi nuovi”. Non si corre, ma si cammina per le vie di un luogo. Io me la sono goduta come una caccia al tesoro. Ai partecipanti, infatti, viene data una mappa con le tappe da visitare.
Ci si incammina pieni di stupore, perché con quel foglio tra le mani si finisce per sentirsi un po’ estranei anche in un posto che si conosce.
L’evento era organizzato in numerosissime città italiane. Io, pur essendo milanese ormai da metà della mia vita, ho scelto di ritornare alle origini e sono andata alla scoperta di Alessandria che, pur essendo molto vicina alla cittadina dove ho vissuto l’altra metà della mia vita, è sempre stata un po’ lontana dai miei percorsi. Mi sembrava giusto darle l’opportunità di svelarsi e rivelarsi.
Il tema della Fai Marathon alessandrina di quest’anno era la famiglia Borsalino, che ha creato la manifattura di cappelli famosi in tutto il mondo. Nelle mie brevi visite in città sono passata molto spesso davanti al negozio, che conserva un sapore d’altri tempi. Peccato che in questa occasione non fosse aperto.
Tutte le altre nove tappe del percorso (in ogni postazione erano presenti volontari che raccontavano un pezzo di storia) sono state una sorpresa. Ho scoperto che il nome Borsalino per Alessandria non è solo sinonimo di una fabbrica famosa, ma anche di una famiglia di mecenati che si è prodigata per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (con la creazione di una cassa pensione ante litteram, ad esempio) e dei cittadini in generale (la realizzazione dell’acquedotto e la predisposizione di un impianto di fognature). Ho scoperto che, per un certo periodo, le fabbriche di cappelli in città erano due, appartenenti a rami diversi della stessa famiglia.
E poi, come sempre, dietro la facciata ci sono le storie. Quella travagliata dell’amore tra Teresio Borsalino e Gea della Garisenda, una cantante d’operetta di grande fascino e dai molti famosi ammiratori (fu D’Annunzio a trovarle il nome d’arte con cui è conosciuta). Quella avventurosa di Celestino Usuelli, parente acquisito della famiglia, che dedicò la sua vita alle imprese sportive e fu pioniere dell’aeronautica.
E poi c’erano le Borsaline, come erano chiamate le operaie della fabbrica (è stato stimato che fossero circa la metà del personale negli anni Venti e Trenta del Novecento). Queste donne, che guadagnavano meno rispetto ai colleghi maschi a parità di qualifica e di orario (ma non capita anche oggi?), sollecitarono l’immaginario popolare. Nacquero così racconti, canzoni e poesie che descrivevano forti personalità di donne, carismatiche, desiderose di indipendenza economica e di piacere grazie a un abbigliamento alla moda.
Bellissima la foto d’epoca, posta davanti al portone della fabbrica, in cui si vedono le Borsaline inforcare la bicicletta dopo un turno di lavoro. Ecco, è questa l’immagine che mi è rimasta più impressa del percorso lungo la storia e la città. Osservandole, mi accorgo che queste donne hanno i nostri stessi sogni e le nostre stesse preoccupazioni, condividono con noi angosce e felicità, sono madri, moglie e figlie.
Mentre torno a casa, mi scappa un sorriso. Mio nonno, racconta mia mamma, aveva un cappello Borsalino, che usava solo la domenica. Prima di indossarlo, lo lisciava con reverenza, un gesto che era a metà strada tra una carezza e una spolverata per togliere un immaginario granello di polvere. Poi se lo posava in testa, un po’ di sbieco, sulle ventitré, e usciva soddisfatto.